Friuli: Piccole scuole e grandi montagne
Il sistema scolastico italiano prevede per le zone montane una deroga ai parametri di dimensionamento nazionali, ma chiede che tutti gli altri obiettivi del sistema vengano raggiunti allo stesso modo, come se la specificità della montagna fosse una questione di numeri. Parte da qui il grande fraintendimento relativo all’istruzione e alla formazione nelle zone di montagna, perché si scambia un problema di contenuti e progettualità con un problema di numeri. Lo spopolamento oggettivo delle aree montane, soprattutto se interne, deve collegarsi ad un’analisi puntuale e precisa sulle potenzialità della montagna, ma anche sui suoi limiti ed errori sistemici. Se, infatti, si ritiene che la montagna non abbia colpe per la situazione attuale e che tutto sia frutto di una contingenza ineluttabile, allora l’idea “nazionale” che basta dare qualche deroga e tutto si appiana è corretta. Poiché, invece, ritengo che ci troviamo davanti ad un problema antropologico di dimensioni epocali e poiché non possiamo considerare lo spezzettamento territoriale, i comuni polvere, il difficile utilizzo dei fondi comunitari per le aree interne, la progettualità poco sinergica della montagna, le deboli infrastrutture scolastiche e formative, il consolidamento delle tradizioni, l’assenza di progetti di area come elementi positivi che comunque mantengono la coesione dei territori, credo sia fondamentale uscire dalla retorica ed entrare nei problemi.
Il sistema scolastico della montagna, così come quello formativo risentono della totale mancanza di una logica progettuale di area. Sia nella Carnia, sia nella Montagna pordenonese, sia nel Canal del Ferro prevale la logica del campanile su quella del progetto di area. Questo avviene non solo nella società, ma anche nelle scuole, ritenute come elemento irrinunciabile di bandiera anche in situazioni ormai divenute numericamente ingestibili. Il problema principale non è solo quello di trovare docenti per pochi bambini, ma di trovarli molto spesso solo di passaggio e soprattutto dentro un precariato che vuol trasformarsi in stabilità, ma in pianura. Dall’altro lato in molti comuni o frazioni montane prevale l’idea del presidio scolastico come elemento di identità locale, senza tener conto dei danni culturali e formativi fatti a studenti cui si vieta il confronto con i pari, a studenti costretti in pluriclassi, a studenti costretti a vivere tutto il percorso scolastico dai 3 ai 14 anni con gli stessi compagni. Questo primo impoverimento ne determina altri, come quello del mantenimento di piccoli plessi molto costosi, poco efficienti e per nulla efficaci; nel cercare di sanare con progetti distanti dall’azione curricolare ordinaria la diminuzione degli studenti e le povertà educative; nel credere che la deroga ad un parametro possa salvare il sistema.
La situazione scolastica della montagna non si può affrontare con i sistemi ordinari previsti dal sistema scolastico nazionale e neppure con interventi regionali di supporto, per tamponare la mancanza di dirigenti, di docenti di ruolo, ma anche di alunni e di opportunità. C’è un problema generale che lega lo spopolamento alla debole offerta lavorativa, che passa da un sistema turistico che ha bisogno di potenziarsi a un’idea di sviluppo frazionata in troppi piccoli comuni. Pensare di applicare i parametri nazionali, sia pure in deroga, a queste realtà porta solo a soluzioni in cui i problemi si sommano tra loro per la mancanza di dirigenti, direttori, docenti di ruolo va avanti in una triste progressione. La montagna ha un ottimo capitale umano, chiuso dentro strutture e tradizioni diventate col passare del tempo eccessivamente conservatrici, lontane dalle esigenze dei giovani, tendenti a conservare un ecosistema culturale con poche prospettive.
Per questo ritengo che il modello scolastico adatto alla montagna friulana di oggi (molto diversa da quella di 35 anni fa in cui da giovane ho insegnato) sia quello delle “Charter School”. Le Charter School sono un modello di scuola “di scopo” nato in America e che prevede l’individuazione di un obiettivo da raggiungere definito nell’ambito di finanziamenti quinquennali. Per raggiungere quell’obiettivo viene data piena libertà alle scuole sulle metodologie didattiche e sulla scelta del personale (contrattualizzato per “chiamata diretta” o per “esame preliminare” e non per graduatoria). Dopo i cinque anni l’obiettivo individuato viene verificato e, se raggiunto, la scuola continua ad operare per un altro quinquennio con un altro obiettivo, altrimenti viene chiusa. Io credo che questo metodo sarebbe di grande aiuto per la montagna, perché potrebbe poggiare su due elementi strutturali:
- organici di ruolo stabili per cinque anni di dirigenti, direttori, docenti e personale ata (incrementabili se aumentano gli studenti, ma intatti anche se diminuiscono),
- autonomia nella gestione dei curricoli didattici legati al territorio con obiettivi chiari e pubblici da raggiungere. Me ne vengono, a caldo, in mente due: miglioramento delle competenze in italiano, matematica e inglese e aumento di diplomati e laureati delle zone montane; raccordo tra il territorio e i programmi e i progetti scolastici (ecologia, ecosistema, turismo, storia, cultura).
Attraverso un sistema a “Charter School” la montagna potrebbe essere monitorata nei suoi percorsi, potrebbe avere risorse certe e stabili, potrebbe agire su progetti di lungo periodo, potrebbe verticalizzare i suoi interventi (rendendo armonico il passaggio dal primo al secondo ciclo dell’istruzione), potrebbe collegare la sua scuola alla valorizzazione del territorio e del turismo. La Regione Friuli Venezia Giulia è una Regione a statuto speciale e può legiferare per una scuola di montagna di progetto scorporata dal sistema scolastico nazionale, ma in questo momento nessuna forza politica o sociale (anche di montagna) ha in mente nulla del genere, anche se, con l’accordo e il concorso di tutti, una legge specifica permetterebbe alla montagna di ripartire dalla sua scuola. La montagna ha le forze per attuare un sistema di “Charter School”, ma deve credere in sé stessa e avere un aiuto da tutti quelli che ancora credono in quella terra, ma, per fare questo, deve uscire dalla logica del piccolo campanile e sposare quella del “campanile di area” (Carnia, Montagna pordenonese, Canal del Ferro).
In montagna serve tanta innovazione e tanto progetto per aiutare la crescita della sua gioventù, un diamante raro che deve trovare un sistema scolastico fatto per le sue esigenze, le sue passioni, il suo futuro e non per standard nazionali (e punitivi) per questa terra e neppure per mantenere in piedi vecchie idee sulla montagna ormai fuori dal tempo.
E’ necessario dimenticare due elementi che hanno caratterizzato tutta la montagna dell’ultimo mezzo secolo:
- la tradizione, che ha portato alla situazione attuale costruendolo un reticolo conservatore e con poche aperture;
- la frammentazione che ha scambiato la logica del campanile con la conservazione di tradizioni che forse possono aggregare le persone anziane, ma che non hanno presa sui giovani.
E’, allo stesso modo, necessario non dimenticare, invece, i due pilastri della montagna:
- la storia che ha un suo andamento particolare non assimilabile a quello della pianura e del resto dell’Italia;
- la cultura, che, in quanto struttura di aggregazione molto forte, costituisce l’asse fondante da cui ripartire.
Una progettualità per area vasta (qui in Friuli Venezia Giulia vanno individuate solo tre aree: Carnia, Montagna pordenonese, Canal del Ferro) permetterebbe anche azioni didattiche di scambio e collegamento, in una logica di curricolo di montagna in cui le classi e le scuole si scompongono e ricompongono dentro le discipline e le opportunità. I “presidi didattici mobili” dovrebbero essere l’elemento che permette di combattere l’isolamento e il frazionamento del sistema scolastico della montagna. Lo studente verrebbe supportato nei suoi bisogni e nelle sue esigenze e le infrastrutture costruite per le scuole potrebbero diventare strutture di comunità (piscine, centri spa o termali, impianti di risalita, biblioteche storiche e tematiche, convitti, ecc.). Grandi investimenti per una grande idea di scuola di montagna tesa a supportare anche il turismo della montagna, ma con un contatto diretto con la scuola
La montagna ha bisogno di grandi reti territoriali di gestione, amministrazione e progetto e tutto questo deve essere innovativo rispetto al presente, che ha bisogno di una realistica analisi in rapporto alla sua dimensione di drammatica regressione. Questa reti territoriali (la Montagna Pordenonese, la Carnia, il Canal del Ferro), come già detto, potrebbero nascere per iniziativa legislativa (il Friuli Venezia Giulia è Regione a Statuto speciale, che dunque può legiferare in materia di istruzione), ma, ripeto, non vedo all’orizzonte nulla del genere. E’ però necessario, per modificare il trend critico, scorporare la scuola di montagna dal sistema scolastico nazionale ed inserirla in un suo percorso specifico. Agire per deroghe non serve a nulla, se non a constatare l’aumento delle povertà educative, dei numeri bassi, delle risorse carenti. Se la politica non intende intervenire, però, lo possono fare le scuole costituendo reti di territorio, che mettano in comune tutte le expertise gestionali, organizzative, didattiche e formative. Va invertita la logica che ha governato la “terribile” esperienza delle Aree Interne, per avviare un processo di aggregazione virtuoso, basato su progetti e prospettive totalmente innovative. I finanziamenti comunitari per le Aree interne si sono andati ad infrangere su progetti minimali e collegati ai singoli campanili, non ad idee di servizio innovative che avessero come riferimento tutta l’area montana interessata. Si è privilegiato il servizio collegato al comune e non alle oggettive esigenze e comodità dell’utenza. Spargere asili nido o sezioni primavera, centri di aggregazione per anziani e servizi di supporto generici attraverso una distribuzione bilanciata per inserire “qualcosa” in tutti i comuni dell’area ha fatto apparire immediatamente come inattuabile il progetto. Così come calare cospicui finanziamenti formativi su scuola con pochi alunni ha ingigantito l’offerta davanti ad una diminuzione degli studenti, rendendo il tutto irrealizzabile.
Il ruolo delle scuole del secondo ciclo (Torricelli di Maniago, Bachman di Tarvisio, Paschini/Linussio e Solari di Tolmezzo) è fondamentale, ma deve uscire dalla logica dell’attivazione di corsi per attirare studenti per entrare in quella della ricerca didattica innovativa, trainando in questo modo e in forma verticale l’area di riferimento.
Bisogna perciò fare attenzione affinché il cambiamento non sia un rifinanziamento di pratiche che già hanno fallito, ma che porti a progettare un sistema di istruzione e formazione della montagna che costituisca l’opportunità per i giovani di oggi. I soldi del PNRR sono lì: la scelta dovrà essere fatta a breve. Se la politica non vuole innovare perché non si muovono le scuole? Forse è il momento di smettere di difendere il (proprio) passato per alzare la testa e pensare ad un nuovo futuro.
Stefano Stefanel
Dirigente scolastico Liceo G. Marinelli