Reportage: Un viaggio nei Balcani, l’Albania di Alberto Sartori
Dai Balcani storie di Innovazione Sociale
Quando parliamo di aree interne siamo abituati a circoscrivere il discorso alla nostra Regione, o eventualmente all’arco alpino italiano. Con questa intervista ho voluto fare un esercizio mentale, allargando i confini del discorso ad un Paese estero. Il risultato? Una grande lezione di umiltà.
Pashk Hasani ha ricevuto un finanziamento per costruire una nuova stalla a Mertur (Fushe Arrez, Albania) da parte del programma “Alleanza per lo sviluppo e la valorizzazione dell’agricoltura famigliare del nord Albania”, un’iniziativa promossa da Volontario nel Mondo RTM e COSPE, con il sostegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). L’obiettivo dell’iniziativa triennale è stato lo sviluppo sostenibile di uno dei territori più arretrati dell’Albania.
Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Trieste e in Studi sul Sud-Est Europa all’Università Karl-Franzens di Graz (Austria), Alberto ha trascorso gli ultimi sei anni tra Serbia, Kosovo e Albania, interessandosi principalmente a processi di sviluppo locale nei Balcani Occidentali. Cresciuto a Gemona del Friuli, attualmente vive e lavora a Scutari (Albania), dove coordina progetti di sviluppo rurale e cittadinanza attiva per una ONG italiana nelle zone montane a nord del Paese. Ho avuto il piacere di confrontarmi con lui sulle tematiche che accomunano il Friuli e l’Albania: aree interne, montagna, giovani, progetti di sviluppo socio-economico. Con il suo stile diretto, Alberto ha saputo mettere in luce sia i punti di contatto sia le contraddizioni del nostro modo di intendere e gestire il patrimonio naturalistico e culturale custodito nelle zone più periferiche della Regione.
La tua formazione universitaria ti ha portato a viaggiare e conoscere luoghi, persone e culture differenti dalla nostra. Cosa ti ha spinto a scegliere proprio l’Albania come luogo di lavoro?
Il passaggio tra università e lavoro si è sviluppato in modo fluido. Durante il percorso magistrale ho svolto un’esperienza di studio in Serbia che mi ha portato poi a rimanere, per interessi professionali, nei Balcani. Ho proseguito le mie attività nella parte settentrionale del Kosovo a maggioranza serba, grazie ad un tirocinio con una ONG locale in tema di diritti delle minoranze, per poi trasferirmi a Pristina per un altro tirocinio con Eulex, l’agenzia dell’UE che si occupa di sostegno allo stato di diritto nel Paese. Ho avuto una bella occasione perché l’intensità degli aiuti in questo settore non è quella di 20 anni fa, visto che sono passati molti anni dai conflitti armati. Successivamente ho conosciuto Volontari nel Mondo RTM, una ONG di Reggio Emilia, per la quale ho lavorato nella regione di Peja (Kosovo), zona dove hanno base le forze armate italiane, occupandomi di sostegno all’attività economica ed empowerment femminile. Infine, per chiudere il cerchio, mi è stata offerta la possibilità di lavorare, sempre per questa ONG, in Albania.
Lago di Fierza
In che cosa consiste il tuo attuale lavoro?
Sono coordinatore di un progetto triennale finanziato dall’Unione Europea che coinvolge diverse organizzazioni e associazioni tra Italia e Albania. L’obiettivo è quello di sviluppare un percorso di crescita individuale e di gruppo dei giovani abitanti dell’area montuosa a nord del Paese. Unendo i contributi dei diversi partner, stiamo costruendo progetti di crescita per il singolo e la collettività che offrano formazione sui diritti civili, occasioni di incontro e confronto tra i giovani e forniscano competenze tecniche in ambito socio-economico, dando quindi una concreta possibilità di lavoro a chi abita queste aree periferiche. Il mio lavoro è coordinare questo consorzio di partner, gestendo al meglio le risorse stanziate dell’UE.
Vivere a stretto contatto con questa realtà non dev’essere facile, come ti stai trovando?
Mi piace molto lavorare a stretto contatto con la gente, meno invece rimanere in ufficio. Amo toccare con mano sia i risultati positivi sia le difficoltà del lavoro che svolgo. Questa zona dell’Albania è interessante per vedere da vicino certi processi sociopolitici perché l’area montana a nord di Scutari è tra le più periferiche del Paese. Storicamente lo Stato ha avuto grossi problemi a raggiungere in modo capillare questi territori, possiamo dire che è da sempre un’area interna. La perifericità è stata anche custodita gelosamente dagli abitanti, che da sempre hanno trovato in questi luoghi un rifugio sicuro dalle invasioni di potenze esterne, ma si trovano oggi a fare i conti con un’eredità di povertà diffusa. Neanche il regime socialista è riuscito ad intaccare nel profondo la radicale struttura familiare dei sistemi sociali in questa zona, dove i tentativi di modernizzazione fanno tuttora fatica ad attecchire in modo coerente. È proprio da qui che nasce il mio interesse per questi territori, perché trovo estremamente rilevante la necessità di un intervento esterno a sostegno degli attori di sviluppo attivi in loco.
Lago Vau Dejës
Quando parli di area interna, non ti nascondo che qualcosa stona. Se prendiamo a confronto quelle che noi chiamiamo aree interne, in realtà sembrano territori molto più sviluppati, sia a livello sociale che economico. Puoi entrare più nel merito di questa differenza?
In questo caso parliamo di un territorio in un certo modo scollegato dal resto del Paese, tratto accentuato dal fatto che l’apertura di un’autostrada in una regione limitrofa ha tolto quel minimo di rilevanza dato dalla presenza della vecchia strada che portava in Kosovo. Puka, che conta poco meno di 4000 abitanti, viene considerata una città; il resto del territorio è occupato da insediamenti abitativi estesi che noi faticheremo a chiamare villaggi. Le dinamiche politiche sono spesso ancora basate su sistemi familiari allargati che non favoriscono di certo la coesione sociale, anzi, c’è un residuo di conflittualità tra i gruppi locali. La situazione non è paragonabile alla Val Resia o alla Carnia, per capirci. Come dicevo, nonostante la pianificazione del regime fosse stata molto dettagliata, lo Stato non è poi riuscito a coinvolgere così capillarmente la popolazione. D’altro canto, chi arrivava dall’esterno veniva sempre visto come un conquistatore, quindi con diffidenza e resistenza. Ci sono stati momenti di maggiore impulso alla modernizzazione, con la costruzione di scuole e ospedali, in cui le cooperative statali fungevano da aggregatori economici: c’era vita povera, ma c’era vita. Adesso non più. Possiamo dire che si è pagato il prezzo di una forzatura nel cercare di mantenere questa vitalità, con le contraddizioni insite in un regime politico con forti limitazioni ai diritti politici e umani. Quando il sistema è crollato, all’inizio degli anni ’90, la gente se n’è andata e si è arrivati ai limiti di una desertificazione, con la natura purtroppo segnata da un passato di eccessi, basti pensare alle numerose zone senza alberi per la deforestazione massiva degli anni precedenti. Adesso si sta cercando di lavorare per riprendere il controllo della situazione in modo più sostenibile, anche se non è per niente facile intervenire dopo 20-25 anni di semi abbandono del territorio e sfruttamento incontrollato di ogni risorsa naturale.
Il tema delle aree interne sta diventando di dominio pubblico, specialmente quando si parla di futuro delle giovani generazioni che vi abitano. Tu lavori in una zona montuosa, con giovani, grazie a progetti europei, che spesso vengono indicati come gli strumenti perfetti per reintrodurre questi territori in dinamiche collaborative ampie e sovracomunali. Come valuti gli interventi dell’UE in Albania per valorizzare le aree interne e i loro abitanti?
L’Albania, nello specifico, rientra nella lista di Paesi in pre-adesione all’UE, quindi può beneficiare di alcuni fondi dedicati. Questi strumenti di finanziamento identificano priorità a livello nazionale e supportano anche attività di cooperazione e collaborazione internazionale. Il sostegno dell’UE arriva però in quantità minore ed è meno strutturato e onnicomprensivo rispetto a quanto possono ricevere i Paesi membri. Nella maggior parte dei casi non si riesce ad arrivare in tutte le aree periferiche, già difficili da coinvolgere con interventi statali. Il rischio è che in queste zone si intervenga in maniera scomposta, frammentata o anche distorta, nel senso che i fondi non sempre vengono diffusi in maniera capillare. Purtroppo, le competenze in questi luoghi sono state portate via dall’emigrazione, quindi in loco rimangono persone a cui spesso mancano esperienza e mentalità per approcciarsi in modo efficace a progetti così complessi, fondati su dinamiche di partnership allargata. La maggior parte della gente, come è immaginabile, vorrebbe andarsene, ma non ha i mezzi economici o di formazione (il sistema d’istruzione in questi territori è deficitario), senza contare che anche l’età avanzata e la mancanza di un appoggio fisico in altre città sono un importante freno. In parole povere, si finisce spesso a supportare poche aziende che pagano anche solo 100-200 euro al mese i dipendenti, i quali appena potranno se ne andranno lo stesso: è un problema strutturale. Bisogna provare a mitigare una migrazione che ci sarà in ogni caso. Non è pensabile che chi è conscio di quello che viene offerto a 100km di distanza voglia rimanere in questi luoghi. In una battuta, i fondi europei, allo stato attuale, sono uno strumento necessario ma non sufficiente a cambiare le carte in tavola. Occorre infatti che lo Stato si adoperi per rendere almeno dignitosa la vita in questi territori, soprattutto in termini di servizi. È nel supportare questo sforzo che i fondi europei sono fondamentali.
Monte di Mërtur
Quando parli di emigrazione, noi friulani ci sentiamo chiamati in causa. Abbiamo però la fortuna di vivere in un’epoca in cui dopo un’esperienza fuori casa alcune persone stanno tornando a vivere e investire nei piccoli centri abitati. Qual è la tua opinione riguardo allo spopolamento delle zone interne?
Nel caso specifico delle zone in cui lavoro, la situazione non è rosea. Come possiamo pensare che qualcuno voglia vivere dove non c’è un ospedale per curarsi, dove molto spesso mancano gli insegnanti a scuola e le persone della sua età se ne sono già andate altrove in cerca di fortuna? Mettiamo anche che i più fortunati riescano ad andarsene, tornare è difficile perché per vivere in pianta stabile serve un lavoro e quello è spesso riservato a chi ha gli agganci giusti. C’è chi punta al turismo, ma non è ancora sufficiente. Non ci sono macchinari agricoli, le famiglie non hanno liquidità, non c’è un piano coerente ed efficace per migliorare la vita delle persone, soprattutto delle fasce più deboli. Quello che manca, mi vien da dire, è quasi tutto. È irrealistico pensare di fermare l’esodo in questi territori, è proprio una retorica sbagliata: il problema non è che le persone vanno via, ma che non ritornano. Se un’area interna del genere tra 10 anni avrà meno abitanti, sarà solo che naturale! Quello che in futuro non deve mancare, invece, sono le competenze e gli strumenti per sostenere progetti, filiere e reti che sostengano l’economia locale, da cui poi può ripartire una valorizzazione del territorio e quindi agganciarsi un’opportunità di rilancio turistico.
Uno degli argomenti più in voga, quando si parla di aree interne, è il digitale. È una tematica che affronti nei tuoi progetti?
È uno dei nostri moduli di formazione per le piccole imprese rurali. Il problema di partenza però, come si può ben immaginare, è l’infrastruttura non ancora sviluppata (in alcune aree salta spesso la corrente). Lo smartphone ce l’ha praticamente chiunque, ma non il pc, che costa il doppio o il triplo e quindi impone anche a noi di mantenere sempre sotto controllo la sostenibilità del nostro intervento. Più in generale, e quindi dobbiamo fare un passo indietro, c’è ancora scarsa meccanizzazione: niente tosaerba, a volte persino niente lavatrice, molti lavori vengono eseguiti ancora a mano. I bisogni reali sono purtroppo ancora altri. Servirebbero strade, scuole, dottori, tutti elementi fondamentali su cui appoggiare un intervento più tecnologico.
Monte Cukal
Anche le nostre aree montuose stanno attraversando un periodo difficile. La pandemia non aiuta di certo ad unire gli abitanti di queste terre, come se la distanza geografica non fosse sufficiente. Che consigli daresti a chi, come te, vuole impegnarsi per portare una migliore qualità di vita in queste zone?
Trovo di fondamentale importanza uscire dal proprio territorio per vedere cosa è stato fatto in contesti simili, per poi astrarre e capire cosa può essere esportato e riprodotto. Questo significa smettere di considerarsi speciali, perché i problemi che viviamo noi sono gli stessi che si presentano in altre zone d’Italia o d’Europa. Consiglio quindi di buttarsi a capofitto in progetti di scambio per sfruttare al meglio stimoli nuovi e migliorare soluzioni già adottate altrove. Vivere in un’area interna non ti rende unico, ma il valore della tua terra sì. Cerchiamo allora di non vedere l’altro come un problema, ma come un’opportunità di arricchimento, perché non si può pensare di agire in solitaria o in maniera autoreferenziale. L’Albania, ad esempio, è paradossalmente più avanti rispetto all’Italia nella riforma delle amministrazioni locali. In un territorio più grande della Carnia, qui hanno solo due municipalità. Questo è frutto di una riforma dell’amministrazione locale spinta dell’UE, che ha condotto ad una razionalizzazione delle risorse accorpando i Comuni. In Italia sono stati fatti vari tentativi ma non sono ancora stati raggiunti livelli ottimali. Se immaginiamo una valle con una municipalità sola, capiamo subito che una logica di collaborazione deve essere estesa a tutta la cittadinanza, perché i problemi da affrontare sono gli stessi per tutti. Al di là della questione politico-amministrativa, che va tenuta molto a fuoco, la priorità deve rimanere quella di aprirsi verso l’esterno, tramite anche opportunità già esistenti. Parlo di progetti europei, gemellaggi, ma anche del servizio civile all’estero. Ho come l’impressione che i ragazzi qua siano più informati su queste occasioni di scambio, perlomeno quelli con un’istruzione universitaria.
Cittadina di Iballë
Ti manca casa? Hai mai pensato di rientrare in Friuli o in Italia?
Sì, un po’ mi manca, non ci torno da fine giugno. Diciamo che non ci tornerei in pianta stabile a breve, perché non mi piace la mentalità un po’ “viziata” che c’è. Ci lamentiamo, facciamo poco e non ci accorgiamo di quanto abbiamo. Siamo una delle Regioni più anziane d’Europa, i temi sono sempre gli stessi e spesso vengono banalizzati nonostante ci sia un grande capitale di persone che non vengono valorizzate e quando lo sono, vengono strumentalizzate per altri interessi. Ho molti amici che sono all’estero e si sente la pesantezza di qualcosa che non va avanti. Per il momento quindi non penso che rientrerò. Mi piacerebbe lavorare per lo sviluppo dei temi di cui mi sto occupando adesso ma non sono sempre ottimista. Ho l’impressione che le cose si stiano muovendo nello sviluppo del privato invece che del pubblico. Si punta troppo anche a livello retorico sul mito del lavoro e poi non ci si accorge degli spazi comuni non valorizzati. Manca, a mio avviso, una cultura della cosa pubblica, e questo porta a barricarsi all’interno della propria stretta cerchia di conoscenze, dimenticandosi che fare comunità significa aprirsi e non chiudersi.
Un’ultima domanda: perché ti piacciono questi temi?
Sono sempre stato appassionato di politica e queste mi sembrano tematiche molto legate ad essa. Riuscire a contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle persone di queste aree è una missione politica, perché non possiamo permettere che una parte importante della nostra società venga trascurata. Ci sono molti pregiudizi verso le persone che vivono nelle zone rurali, la mia è in fondo una reazione all’idea che chi è rurale è arretrato. Bisogna sfatare questo mito e dimostrare che qualcosa di innovativo può arrivare anche da qui. Quando con il nostro lavoro otteniamo risultati in questa direzione, la soddisfazione è grande ed è questo ciò che dà poi senso a quello che facciamo.
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