Italia: si, si può ancora riabitare nelle aree interne!
Riabitare le aree interne, il punto di vista di Giovanni Carrosio
Anna Piuzzi «Vita Cattolica»
E’ tempo, ora più che mai, di consapevolezza. Serve capacità di pensiero, collettiva, per raccogliere l’eredità della pandemia e insieme ad essa anche le sfide e le opportunità che ci offre. Una su tutte quella del rilancio – ma per davvero – delle aree interne, attraverso cui far rinascere la montagna, invertendo la rotta dello spopolamento. Abbiamo imparato che lo smartworking è un’opportunità importante, ma da sola non può bastare. Ne abbiamo parlato con Giovanni Carrosio, sociologo dell’ambiente e del territorio dell’Università di Triste, esperto di transizione energetica, questioni ambientali, sviluppo rurale e coesione territoriale.
Giovanni Carrosio è nato a Voltaggio, in Val Lemme, nel 1980. Si occupa di questioni ambientali, transizione energetica, sviluppo e coesione territoriale, economia civile ed ecologia politica. Per diversi anni è stato assegnista di ricerca all’Università di Trieste, ha insegnato sociologia dell’ambiente allo IUAV di Venezia e Sociologia della comunità e del territorio all’Università di Padova.
Ora fa parte del gruppo di supporto alla Strategia Nazionale per le Aree Interne. È membro della Società Europea di Sociologia Rurale e ha partecipato alla fase costituente della Società dei Territorialisti. Fa parte del comitato scientifico di ènostra e della redazione della rivista CNS – Ecologia Politica. È socio di Banca Popolare Etica, del circolo di Legambiente Val Lemme e dell’ANPI.
È referee per le riviste Local Economy, Energy Policy, Political Ecology, Sociologia Ruralis, Sociologia Urbana e Rurale, Agriregionieuropa, Sustainability, Scienze del Territorio, Culture della Sostenibilità. Ha pubblicato più di 40 articoli scientifici su riviste nazionali e internazionali e scrive periodicamente sul sito della rete Costituzione Concilio Cittadinanza.
Professore, la pandemia come opportunità, lo è davvero?
«Durante il lockdown il tema della pandemia come evento capace di modificare radicalmente le nostre traiettorie di vita e di pensiero, è stato molto di moda, innescando il dibattito sul rapporto tra quella serrata e il nostro modo di vivere e di abitare. La posizione prevalente era “nulla sarà come prima”. Su questo sono stato sempre molto critico, ma certamente convengo sul fatto che la pandemia, scremata di tutta la sua tragicità, sia un’occasione da non sprecare, in cui tante cose che prima non si potevano nemmeno dire, ora sono diventate esigibili».
Una su tutte, l’inversione di rotta rispetto all’inurbamento.
«Per trent’anni le politiche sono state costruite sulla convinzione che l’inurbamento fosse un processo immodificabile. Ora invece, nell’opinione pubblica, c’è l’idea che vivere al di fuori dei grandi agglomerati può tornare ad essere una scelta di vita, soprattutto in forza delle possibilità offerte dallo smartworking».
Sembra però esserci in agguato un “ma”.
«Dal mio punto di vista non è una traiettoria inevitabile, nel senso che, per fa sì che questo accada, bisogna fare delle scelte: modificare il modo in cui pensiamo all’infrastrutturazione del nostro Paese, alla collocazione dei luoghi della cultura, alla localizzazione delle università, degli ospedali e così via. Qui si apre una battaglia culturale e politica: se queste decisioni vengono prese possiamo allora parlare di ripopolamento delle aree interne, ma se, al contrario, si va in un’altra direzione è difficile che il comportamento di pochi riesca a dettare l’agenda. Lo spazio di possibilità che si è aperto va riempito di volontà politica».
C’è anche la questione ambientale.
«Sì, perché oltre alla ricerca di zone più rarefatte dal punto di vista della densità abitativa, dove esistono naturalmente delle forme di distanziamento sociale, c’è il tema, non nuovo, del cambiamento climatico. Le città stanno diventando sempre più calde, le persone cercheranno quindi sempre di più territori “in vantaggio climatico”. Ma anche qui ci sarebbe bisogno di una politica lungimirante per dar vita a un Paese policentrico, un’Italia cioè sempre più diffusa anziché concentrata».
Molte aspettative ruotano attorno al Recovery Fund.
«In Italia abbiamo un ministro, Giuseppe Provenzano, che si occupa di meridione e di coesione territoriale, quindi anche di aree interne, e che, a differenza di molte altre figure che hanno ricoperto quel ruolo, è sensibile a questa tematica e si sta impegnando perché una buona parte dei fondi sia utilizzato per immaginarsi delle politiche di deconcentrazione della popolazione sul territorio ».
Cosa serve perché favorire l’auspicato policentrismo territoriale?
«Il grande deficit che affligge le aree interne in questo momento riguarda i diritti di cittadinanza. Negli ultimi trent’anni si è ragionato secondo la logica delle economie di scala, tagliando servizi dove in termini economici non c’erano le garanzie della loro sostenibilità. Non c’è una determinata quota di bambini? Chiudo la scuola. Non c’è un sufficiente numero di parti? Chiudo il punto nascita. Per il reinsediamento bisogna invertire rotta: ideare una scuola innovativa, attrattiva, un modo nuovo di organizzare i punti nascita nei territori, una mobilità pubblica adeguata. Serve un investimento coraggioso capace di innescare un cambiamento. In Italia ci sono già esperienze che vanno in questo senso, interessantissime ed efficaci, ma purtroppo sporadiche».
Questo richiede che anche i territori si mettano in gioco in maniera propositiva.
«Certamente, devono uscire da una logica difensiva e rivendicativa che chiede il mantenimento dei servizi “dove sono e come sono”, una mentalità molto presente in Friuli-Venezia Giulia. La logica vincente è ripensarsi, mantenere sì i servizi, ma renderli attrattivi su territori difficili».
La nostra regione, negli anni, sembra aver fatto un percorso in parte inverso, ad esempio tagliando i servizi soprattutto per quel che riguarda la sanità.
«Sì, e colpisce molto perché il Friuli-V.G. ha fatto scuola nel mondo per come si possa fare medicina di territorio, penso ad esempio all’esperienza delle “micro aree” di Trieste: declinata sulle aree interne quell’esperienza potrebbe essere capace di mantenere una prossimità dei servizi con le persone che vivono nei luoghi».
Una questione che tiene banco è quella dei punti nascita.
«La questione non è “punto nascita sì” o “punto nascita no”, sarebbe più produttivo ragionare sulle possibilità di una medicina di territorio. Ammesso che si debba chiudere il punto nascita, bisogna allora avvicinare dei servizi alla donna incinta: incidere di più con la pediatria di iniziativa, con l’ostetrica che sta sul territorio, con l’infermiere di comunità. E poi c’è un altro passaggio da fare con urgenza».
Quale?
«Abbandonare la retorica secondo cui l’immigrazione rappresenta la fine dell’identità. Mi ha molto impressionato il fatto che il vicepresidente del Consiglio regionale nei giorni scorsi abbia girato la Carnia per raccogliere firme contro “l’invasione”, chiamandola addirittura “sostituzione etnica”. La chiusura all’arrivo di chiunque è una condanna. I numeri sono chiari e ci dicono che o arriva gente da fuori – che può essere il triestino, lo sloveno, ma anche il congolese – oppure anche le identità materiali di questi luoghi moriranno».
Identità materiali, dal paesaggio al formaggio tipico?
«Sì, quei beni che chi vive lì riproduce da secoli e che con lo spopolamento si degraderanno sempre di più. In altri luoghi d’Italia, dove i migranti sono arrivati e si sono inseriti nelle filiere locali del lavoro, dall’allevamento alla cura del bosco, sono state messe in sicurezza le identità di quei territori. Chi è ad esempio a lavorare, all’interno della filiera del Parmigiano Reggiano, negli allevamenti? Soprattutto indiani e pachistani. Mi rendo conto che, in questo momento, sia molto difficile uscire dalla retorica dell’invasione, ma è necessario farlo».