Friuli – L’Alpe Adria da Tarvisio a Moggio

Friuli – L’Alpe Adria da Tarvisio a Moggio

Alpe-Adria è tutto e niente. Per qualcuno è un’autostrada, per altri una banca, altri ancora pensano a un centro commerciale.

I tedeschi, veri “proprietari del brevetto”, storicamente la intendono come una regione dai contorni sfumati che dalle Alpi orientali si allunga a includere l’alto Adriatico, mescolando culture, lingue e geografie in un’armonia dal retrogusto mitteleuropeo. “Roba loro”, verrebbe da dire. In realtà è una piccola Europa per tutti i suoi abitanti, che per i capricci della storia si è trovata divisa tra knödel, ćevapčići, frico e pastasciutta. Come se tutte insieme non potessero stare! Ora che finalmente il confine più mobile d’Europa ha smesso di ballare, i vicini di casa si fiutano e si riscoprono, sostituendo la domanda “di chi è Alpe Adria?” con la ben più pratica “che si fa con Alpe Adria?”.

Questo spirito ha persuaso, una decina di anni fa, la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, insieme al Land Carinzia e al Land Salisburgo, a sviluppare un progetto di cooperazione transfrontaliera con l’obiettivo di disegnare un itinerario cicloturistico che potesse agevolmente collegare la città di Mozart al mare valicando le montagne. Alpe Adria è così diventata (anche) una pista ciclabile straordinaria che attraversa monti, pianure e paesi, concedendosi alle acque del mare, abbagliate dalla luce della sera, presso Grado. A conferma della sua spettacolarità, si è meritata il riconoscimento di “miglior pista ciclabile dell’anno 2015” alla fiera del turismo attivo di Amsterdam e il prestigioso “Oscar del cicloturismo 2016” al Cosmobike di Verona.

Il percorso della “Ciclovia AlpeAdria Radweg” da Salisburgo a Grado
Il percorso della “Ciclovia AlpeAdria Radweg” da Salisburgo a Grado (fonte: https://www.tuttogreen.it/ciclovia-alpe-adria-ciclabile-italia-austria/)

Chi si trova a pedalare in questo paradiso, non può non restarne affascinato, trovando un giusto mix tra enogastronomia, servizi e paesaggi incontaminati. Ma, come ci insegna Paolo Rumiz, noi sappiamo che il Friuli autentico non è mai doc. È il Tagliamento selvaggio tra Gemona e Trasaghis, che apre e chiude i suoi canali tra sabbie bianchissime. Sono le casere di confine della Val Resia, per secoli rifugio di spericolati banditi tra la Serenissima e l’Impero, connessi più dal contrabbando che dalle decisioni geopolitiche. Sono i bivacchi delle Alpi Giulie, da cui si vede l’alba che sale da Oriente, sopra chissà quali mondi lontanissimi e inaccessibili.

Così, anche la ciclabile Alpe Adria, per chi la vive quotidianamente, assume plurimi significati. Da un lato una rivoluzione per i paesi montani, che faticosamente tentano di addomesticarla per poterci creare una rendita, dall’altro un’apertura all’esterno dalle prospettive fluide e non del tutto esplorate. Soprattutto, diventa un modo per molti locals di riavvicinarsi al movimento e scoprire il nuovo in ciò che non muta. I sessanta chilometri da Tarvisio a Gemona sono, infatti, quasi tutti ricavati dalla vecchia ferrovia Pontebbana, per la maggior parte in discesa e facilmente raggiungibili dalla pianura con il comodo servizio ferroviario MICOTRA, il MIglioramento COllegamenti TRAnsfrontralieri che unisce Udine a Villaco fermandosi nei paesi della Valcanale. Questo ha spinto moltissimi a montare in sella anche solo per gite da una mattina, che non richiedono particolare equipaggiamento e regalano soddisfazioni sportive, culturali e paesaggistiche uniche, con qualsiasi tempo atmosferico.

Capita così che un amico, appunto con una sola mattina libera, mi contatti per un “ripasso”, in vista di una gita di classe a cui deve fare da accompagnatore. Detto fatto. Si parte con il MICOTRA. Come da manuale. La “metropolitana”, come i pendolari chiamano la ferrovia che dagli anni ’90 passa sotto la montagna, è semivuota. L’aria condizionata spara aria torrida che non aiuta a svegliarsi, anzi, pare un esorcismo mal riuscito contro un maggio che tutto sembra meno che primavera. Si cambia registro a Tarvisio, dove arriviamo alle otto e mezzo, poco più di trenta minuti da Gemona. Fa più caldo del previsto. I corpi intorpiditi iniziano a lavorare più facilmente. È martedì, andiamo veloci lungo la ciclabile deserta, finché non ci sveglia definitivamente un caffè sotto la chiesa di Pietro e Paolo, fortificata nel Cinquecento contro le invasioni dei Turchi. Non c’è molto tempo, così filiamo verso sud. Io riporto aneddoti, sperando di non annoiare troppo il compagno.

La chiesa dei SS Pietro e Paolo di Tarvisio
La chiesa dei SS Pietro e Paolo di Tarvisio

Culmine di Camporosso, 804 mt slm. Dal valico più basso dell’arco alpino diciamo addio al bacino danubiano e puntiamo a sud, anche se il fresco e la neve a poca distanza, sulle cime delle Alpi Giulie, non lasciano spazio all’immaginario mediterraneo. L’occasione è buona per raccontare la storia della toponomastica di Camporosso, intrisa di frontiera come tutti questi paesaggi.  Žabnice in sloveno e Saifnitz in tedesco, il paese sorge sugli stagni dello spartiacque e, difatti, il nome significa letteralmente “zona di rospi e rane”. Da cui il friulano Cjamparos (o, si dice, Cjamparosp). Tuttavia, “Camporospo” suonava decisamente poco irredento alle orecchie di Ettore Tolomei, il direttore del “glorioso” programma di italianizzazione dei toponimi delle terre annesse dopo il 1919, il quale, nel tentativo recuperare l’italianità “perduta” di quei luoghi, preferì “Camporosso in Valcanale”. Storie che sanno di esotico. Ma più vicine di quel che si crede. Anche il piccolo paese di Lipalja Vas/Leopoldskirchen, frazione di Pontebba a poca distanza da Malborghetto, è in origine “la chiesa di Leopoldo”, ma diventa “San Leopoldo Laglesie”, in un inatteso cortocircuito tra un santo che non c’è e una chiesa, La Glesie in friulano, che invece c’è eccome.

Verde di primavera e grigio di nuvole accompagnano il nostro rapido andare. La ciclabile, ancora più accelerata grazie alla pendenza costante in discesa, è una poesia a pedali. A Pontebba ci sentiamo quasi obbligati a sostare, perché non è passata neanche un’ora e abbiamo fatto più di trenta chilometri. Passato il ponte del vecchio confine, la valle piega a sud, trasformandosi nel Canal del Ferro. Le montagne si stringono in una morsa e il paesaggio si fa minerario, quasi ostile. Aumentano le pendenze e tra vecchi tunnel ferroviari e impavidi ponti sospesi nel vuoto, il sole fa capolino dalle nubi. Sul Ponte di Muro, luogo di un tremendo incidente ferroviario nel 1920, una pausa ristoratrice mi confonde con il luogo. Nei momenti in cui il grigio si dirada, inondando di luce i boschi e le cime innevate, capisco il significato di “azzurro elementare”. Un cielo, come lo descriveva il poeta Pierluigi Cappello, immediato come il mare degli atlanti. E sono solo due ore che pedalo.

Il Canal del Ferro a Ponte di Muro
Il Canal del Ferro a Ponte di Muro

Il Canal del Ferro a Ponte di Muro

Si riparte. In questo lungo luna park c’è spazio discutere, pensare, organizzare il prossimo giro. Senza accorgercene tocchiamo i 36 km/h ma non stiamo pedalando. Tra Pontebba e Chiusaforte le pendenze arrivano anche al 17‰ e in meno di 16 km si copre quasi 180mt di dislivello. Sembra poco, ma immaginando che questo era uno spazio progettato per le locomotive, tutto acquista un significato diverso. La ferrovia Pontebbana irruppe in queste valli nel 1879, trasformando l’Alto Friuli in un immenso Far West. Fino allora era stata la natura a disegnare il paesaggio, ma da quel momento fu l’uomo. Dove passava la grande infrastruttura, i fianchi delle montagne sono segnati con muraglioni, ponti e gallerie. Il treno portò il progresso e indotti sicuri, ma allo stesso tempo portò via, per sempre, famiglie e mestieri del mondo antico. I carrettieri e i cramârs, gli ambulanti, che avevano capito il significato di cooperazione transfrontaliera ben prima dell’Europa Unita, o gli çatârs, gli anarchici zatterieri, o zattieri, che dominavano le acque del Fella e della Carnia portando legname a valle per la gloria di San Marco. 

La storia incontra di nuovo l’ambiente poco prima di Chiusaforte, dove la valle assume la forma di una gola dirupata e strapiombante. Le falde dei monti salgono fin quasi a toccarsi, divise solo da lo trazer de un bon brazo, il tiro di un buon braccio, come scrisse cinque secoli fa un ispettore della Repubblica di Venezia, di cui Chiusaforte costituiva l’ultimo avamposto prima delle terre imperiali. Qui sorgeva la “Chiusa”, una fortezza che per secoli ha controllato i passaggi di uomini e mezzi tra la Penisola e l’Europa centrale. Ora, di questa struttura difensiva così importante, non resta che la sua immagine su un pannello e un muretto, alto sopra la vecchia statale. Ma resta la sua memoria storica, e restano quelle linee schizofreniche che sono le frontiere, troppo spesso frettolosamente eliminate dalle carte ma non dalla testa della gente.

Il Ponte di Ferro a Chiusaforte. Sullo sfondo a destra le rupi su cui sorgeva la fortezza della Chiusa
Il Ponte di Ferro a Chiusaforte. Sullo sfondo a destra le rupi su cui sorgeva la fortezza della Chiusa

A Chiusaforte, la tappa d’obbligo è alla Stazione, sapientemente risistemata dalla cooperativa “La Chiusa”. Il simpatico bici grill ha mantenuto intatto lo charme del vecchio mondo e in ogni momento sembra di veder sbucare la locomotiva da dietro la curva. Ma non è solo quest’aria da Belle Epoque che rende magico il posto. I collaboratori sanno che gli errabondi in bici sognano birre, calma e racconti. Fabio, il gestore, come dice chi lo conosce bene, è “un’hipster a sua insaputa”, che, tra un dolce e un piatto di gnocchi, raccoglie nei suoi occhi un sapere antico e la memoria della valle. Il compagno si è abituato alle lunghe pause al paese natìo, ma è tempo di continuare. Rimontiamo in sella e la valle serpentiforme si snoda tra altri viadotti, ardite gallerie e visuali mozzafiato tra Prealpi carniche e giulie. A destra ci segue il Fella, voglioso di pianura, che si tormenta in mille canali e isolette cercando il grande Tagliamento.

La Stazione di Chiusaforte
La Stazione di Chiusaforte

La pista ciclabile termina a Moggio, nell’attesa che si completi il percorso fino a Gemona. Qui siamo costretti a deviare prima per il vecchio tracciato della Strada Pontebbana e in seguito alcuni chilometri lungo l’attuale statale. Ci guardiamo. Il posto è relativamente pericoloso quindi parte la corsa. Gamba, pedale, ruota, strada. Gamba, pedale, ruota, strada. Il meccanismo fa macinare gli ultimi chilometri curvi come i flandrien del Giro delle Fiandre, con il risultato che Venzone arriva ben prima del previsto. Realizzo un pensiero che mi ha accompagnato dal Belgio, il “paese piatto” dove ho lasciato parte di me in sella a una vecchia Bottecchia: se l’uomo è l’unione di corpo e mente, la bici è la sua apoteosi, perché in bici corpo e mente vanno alla stessa andatura.

Alessandro  Ambrosino

3 Comments

  • Luigi Segale
    31 Gennaio 2021

    Bel racconto Alessandro.

  • vanni treu
    31 Gennaio 2021

    Si, davvero un racconto ben fatto. Complimenti. Bello leggere ancora le tue storie di confine….

  • Ouida Reavley
    28 Giugno 2021

    articolo perfetto grazie

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